Il rendimento di un portafoglio finanziario può essere influenzato, oltre che dall’andamento dei singoli titoli o strumenti finanziari che lo compongono, anche dallo stile di gestione adottato dal gestore professionista ovvero dall’investitore fai-da-te: è possibile infatti distinguere tra gestione attiva e gestione passiva.
L’evidenza scientifica dimostra come nel breve e medio periodo l’attività di un operatore specializzato possa, attraverso la variazione dell’asset allocation e ripetute operazioni di stock picking e market timing, apportare valore aggiunto alla gestione, influenzandone la performance; al contrario, appare evidente come, anche a causa di frequenti bias comportamentali, il rendimento di un portafoglio gestito in modo autonomo dal singolo investitore possa soffrire di una gestione poco accorta e incostante nel tempo.
La gestione attiva
La costruzione e la gestione professionale di un portafoglio finanziario
La gestione attiva è una strategia di investimento con la quale il gestore prende una molteplicità di decisioni di investimento nel tempo, finalizzate a ottenere una performance superiore a quella di un indice di riferimento, detto benchmark.
Il concetto alla base di questa strategia è il seguente: il gestore espone il portafoglio a un rischio superiore a quello del benchmark; se il maggior rischio genera un maggiore rendimento, la strategia ha successo.
Ma quanto spesso tale strategia ha successo? A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca: dipende dalla capacità del gestore e dalle condizioni dei mercati in cui opera. È però possibile trarre interessanti conclusioni con un’analisi storica dei rendimenti delle gestioni attive, sia da parte di gestori professionali, sia da parte di investitori singoli.
I principali strumenti a disposizione del gestore per mettere in atto tale strategia sono: – asset allocation: variare nel tempo l’esposizione del portafoglio ai diversi mercati di riferimento, al fine di sfruttare – idealmente – le tendenze positive di alcuni di questi, abbandonando quelli che manifestano tendenze negative;
– stock picking: selezionare le attività finanziarie in modo da creare un portafoglio in cui prevalgono le attività sottostimate dal mercato (quindi con un maggiore potenziale di crescita) rispetto a quelle sovrastimate;
– market timing: aumentare o diminuire l’esposizione del portafoglio ai diversi mercati di riferimento sulla base di previsioni sull’andamento futuro dei prezzi.
Le decisioni di investimento, peraltro, sono vincolate dal fatto che, individuando un indice di riferimento, e data la natura di delega del contratto di gestione, si individua implicitamente un profilo rischio/rendimento dal quale il gestore non si può discostare eccessivamente. Appare in tutta evidenza come tale strategia si fondi:
– sull’ipotesi implicita che i mercati finanziari non siano efficienti, ovvero non incorporino nel prezzo tutte le informazioni disponibili in ogni istante;
– sulla conseguente convinzione che capacità, esperienza, intuito e tecnologie possano permettere al gestore di prendere le decisioni più efficaci in termini di rendimento.
La gestione passiva
La costruzione di un portaglio di investimento come replica di uno o più indici di mercato
La gestione passiva è una strategia di investimento con la quale il gestore di un portafoglio (spesso, ma non necessariamente, un fondo comune di investimento, un fondo pensione o un altro organismo collettivo di risparmio) minimizza le proprie decisioni di portafoglio al fine di minimizzare i costi di transazione e l’imposizione fiscale sui guadagni in conto capitale. Nell’ambito di questa strategia, è comune ricorrere al metodo di replicare l’andamento di un indice di mercato (detto benchmark) o di una composizione di indici di mercato. Tale approccio è più comune nella gestione dei portafogli azionari, attraverso la creazione dei cosiddetti fondi indice, che replicano l’andamento di un indice azionario.
Il concetto di gestione passiva si fonda su due elementi fondamentali della teoria della finanza: – l’ipotesi di mercato efficiente, secondo la quale il prezzo di mercato di equilibrio riflette pienamente e perfettamente l’informazione disponibile e, perciò, secondo l’interpretazione più diffusa, è impossibile “battere il mercato”, cioè realizzare una performance migliore di quella del mercato nel suo complesso;
-il problema agente/principale, che insorge dalla asimmetria informativa e dal divario di competenze, che non permette all’investitore (principale) di monitorare adeguatamente l’attività del gestore a cui affida il proprio patrimonio (agente).
Un portafoglio che replica l’andamento di un indice viene realizzato acquistando attività finanziarie nella stessa proporzione dell’indice scelto. Questo pone un importante vincolo all’efficacia di questa strategia: dato che le attività finanziarie non sono infinitamente divisibili, per replicare la composizione dell’indice è necessario disporre di un patrimonio assai elevato, per evitare che la diversa granularità delle attività finanziarie imponga una replica non perfetta del portafoglio, generando uno scostamento dalla performance dell’indice considerato.
Uno dei principali vantaggi della gestione passiva è legato al minor numero di operazioni di compravendita di attività finanziarie eseguito dal gestore nell’unità di tempo. Questo riduce i costi di transazione e, nel caso di fondi comuni, fondi pensione e altri organismi collettivi di risparmio, permette di minimizzare le commissioni richieste ai sottoscrittori. In conseguenza, a parità di rendimento della gestione, la minore entità delle commissioni permette di avere una performance netta superiore.
Un secondo vantaggio è legato al fatto che la minore frequenza delle compravendite permette, in alcuni casi e in alcuni regimi fiscali, di rinviare la tassazione dei guadagni in conto capitale, che vengono rilevati nel momento in cui le attività finanziarie sono cedute, come differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita.
Il rendimento della gestione attiva dei gestori professionali
L’evidenza empirica riguardo al rendimento offerto dalla gestione professionale del risparmio
Nella scelta tra gestione attiva e gestione passiva del portafoglio, il dato empirico è fondamentale per la valutazione della performance e il confronto. Ma proprio sui dati – o, meglio, sulla loro interpretazione – da almeno quindici anni si è acceso un dibattito che coinvolge accademici, professionisti della finanza e stampa specializzata.
Due studi, condotti da Brinson, Hood e Beebower sembrerebbero dimostrare che i due elementi fondanti della gestione attiva di portafoglio, la selezione delle attività finanziarie e il market timing, abbiano un’influenza limitata sulla performance della gestione. La maggior parte di essa, infatti, sarebbe da attribuire alla scelta di fondo di diversificazione del portafoglio fra le diverse classi di attività: la cosiddetta asset allocation.
D’altra parte, non ci si deve illudere che sia possibile determinare razionalmente e correttamente l’asset allocation di un portafoglio e lasciare che la selezione dei singoli titoli e del momento delle singole transazioni sia affidata al caso, o a chicchessia.
In termini generali, l’attività del gestore influisce sulla performance nel breve e medio termine: nel lungo e nel lunghissimo periodo, la qualità della gestione attiva sembra avere meno impatto sulla performance, sulla quale tenderebbe a prevalere l’influenza delle grandi decisioni strategiche di diversificazione.
Questa considerazione sembra essere confermata da uno studio condotto da SEI Investments, una grande società finanziaria americana, sui dati di performance relativi ai fondi comuni d’investimento americani in tutto il corso degli anni ’90. Da questa ricerca emerge che i gestori migliori non sono gli stessi in diversi periodi: solo poco più della metà dei gestori classificati nel primo quartile nel periodo 1994-1996 (cioè quelli che hanno ottenuto una performance che li ha collocati nel primo quarto della graduatoria) sono rimasti fra i migliori nel periodo successivo (1997-1999). Analogamente, poco meno della metà dei gestori peggiori (quarto quartile) nel periodo 1994-1996 si è collocata nelle posizioni di testa della graduatoria nel periodo successivo.
D’altra parte, questi dati e queste ricerche sono stati contestati da più parti e, allo stato attuale del dibattito, non è possibile prendere una posizione non equivoca a favore o contro la gestione attiva, in termini di qualità della performance generata
Il rendimento della gestione attiva degli investitori al dettaglio
L’evidenza empirica riguardo al rendimento conseguito dalla gestione realizzata dai singoli investitori
Sino alla metà degli anni novanta si sapeva molto poco relativamente al rendimento della gestione attiva da parte degli investitori al dettaglio, contrariamente a quanto accadeva per i fondi comuni di investimento, uno dei comparti più studiati nell’intera finanza empirica.
Molti risultati sono però stati sviluppati negli ultimi anni, soprattutto grazie alla possibilità di utilizzare ampie banche dati, riguardanti le operazioni effettuate da migliaia di individui. Le banche dati sono state rese disponibili da alcuni discount broker statunitensi.
Barber e Odean sono i ricercatori più attivi nell’analisi di queste banche dati. Essi cercano di interpretare le operazioni di investimento svolte dagli individui alla luce dei bias comportamentali individuati dalle analisi di finanza comportamentale, facendo particolare riferimento alla tendenza degli individui ad essere troppo fiduciosi in se stessi. In alcune analisi, Barber e Odean analizzano la relazione tra la quantità di turnover (vale a dire la frequenza degli acquisti e delle vendite di titoli azionari in un certo periodo di tempo) e il rendimento conseguito dall’investitore. Trovano che i rendimenti al lordo dei costi di transazione sono indipendenti dal turnover, ma che i rendimenti al netto dei costi di transazione hanno una forte relazione inversa con il turnover. Un’interpretazione possibile è che gli individui inclusi nel campione (di oltre 66mila soggetti) non hanno una particolare capacità di selezione dei titoli e non tendono perciò a guadagnare di più facendo molte transazioni. Al contrario, l’aumento dei costi di transazione associati al maggior turnover non viene compensato da più elevati rendimenti medi, lasciando quindi una relazione inversa tra transazioni e rendimenti. In altre analisi Barber e Odean trovano che i titoli che in genere vengono venduti dagli individui hanno una variazione futura dei prezzi (per un periodo sino a due anni dopo l’operazione) più ampia dei titoli che vengono acquistati: su un orizzonte biennale il differenziale di rendimento tra titoli venduti e titoli acquistati è leggermente superiore a 3,5%. Inoltre gli studi rivelano la tendenza degli investitori a detenere titoli in perdita eccessivamente a lungo, quasi come se il mantenimento in portafoglio rappresentasse il rifiuto della disponibilità a riconoscere l’errore effettuato nell’acquistare un titolo il cui prezzo è poi sceso.
Anche nel campo dell’accumulazione della ricchezza previdenziale si riscontrano alcune tendenze preoccupanti. Benartzi ad esempio mostra che circa un terzo dei contributi ai piani pensionistici aziendali negli Stati Uniti sono investiti in titoli della stessa azienda presso cui si lavora, un comportamento che contrasta con elementari principi di diversificazione del portafoglio. Si riscontra inoltre una forte tendenza da parte degli individui nel seguire le indicazioni dell’impresa che offre il piano pensionistico, sia per quanto riguarda l’ammontare annuale di contribuzione sia per quanto riguarda l’investimento in varie classi di attività finanziarie.
Il comportamento degli investitori italiani
Il risultato delle analisi sul comportamento finanziario degli investitori italiani
Sino a pochi anni fa poco era noto in merito al comportamento dei singoli investitori, ma dalla metà degli anni novanta sono state effettuate varie analisi sul comportamento dei piccoli investitori statunitensi, soprattutto per merito di studiosi come Barber ed Odean, che hanno potuto utilizzare un dataset concesso da un discount broker in merito alle scelte effettuate dai singoli clienti.
Nel caso dell’Italia varie evidenze sono state portate a partire dalla fine degli anni novanta per merito di vari studi, tra i quali possiamo ricordare quelli contenuti nel Rapporto annuale sul risparmio del Centro Einaudi e della BNL.
I risultati sono uniformi nell’indicare l’esistenza di comportamenti irrazionali da parte degli investitori (individuali, non istituzionali). Nel caso degli Stati Uniti ad esempio si è mostrato che gli investitori: – detengono troppo a lungo i titoli in perdita, probabilmente essendo restii ad ammettere gli errori compiuti nella scelta ed ignorando le caratteristiche dei titoli per studiare le prospettive future dei prezzi; – effettuano troppe movimentazioni di portafoglio: è possibile individuare un ampio differenziale tra il rendimento conseguito da chi movimenta tanto il portafoglio e quello di chi movimenta poco il portafoglio a favore di questi ultimi;
– privilegiano in maniera sistematica i titoli azionari che avranno performance poco brillanti nel futuro a discapito dei titoli che invece tenderanno a salire;
– sono influenzati dal canale di contrattazione (passare dalla contrattazione “tradizionale” a quella su Internet aumenta la frequenza delle transazioni);
– nel caso di scelta di fondi comuni di investimento, gli investitori sono molto (negativamente) influenzati dalla presenza di commissioni di ingresso ma relativamente insensibili al livello delle commissioni di gestione. Inoltre tendono ad acquistare e a vendere fondi comuni che hanno conseguito rendimenti positivi nel passato, detenendo troppo a lungo in portafoglio i fondi comuni che hanno ottenuto rendimenti negativi;
– diversificano in maniera insufficiente il portafoglio dal punto di vista internazionale, privilegiano addirittura i titoli emessi da aziende localizzate vicino al luogo di residenza.
Anche in Italia gli investitori sembrano essere afflitti da simili problemi di irrazionalità. Ad esempio, i possessori italiani di titoli azionari spesso detengono un portafoglio composto da pochissimi titoli; ma soprattutto emergono vari problemi legati alla scarsa informazione ed alla scarsa conoscenza dei mercati finanziari. Un’analisi relativamente nota eseguita nel Rapporto del Centro Einaudi e BNL ad esempio mostra che gli italiani si informano pochissimo sui temi finanziari. Su 100 italiani intervistati, 66 non sanno quanto tempo dedicano ogni settimana all’informazione finanziaria, e ben metà del restante 33 dedica meno di mezz’ora alla settimana a questo tema.